Al di là del pubblico e del privato

di Nora Racugno

Se non abbiamo un modello di ciò che desideriamo essere, abbiamo però, ed è forse altrettanto prezioso, il modello quotidiano e illuminante di ciò che non desideriamo essere. … Il nostro modello, lungi dallo stare immobile e in posa, si muove continuamente e scompare.

La Società delle Estranee
(Virginia Woolf, Le tre ghinee)

Il pubblico

La civiltà attuale, della quale i nostri discendenti raccoglieranno sicuramente in eredità almeno dei frammenti, contiene, lo avvertiamo fin troppo, quanto basta per schiacciare l’essere umano; ma contiene anche, almeno in germe, qualcosa che può liberarlo. (…) quale compito più nobile potremmo assumerci se non quello di preparare metodicamente un tale avvenire, lavorando a fare l’inventario della civiltà presente? (1)

Il desiderio di agire e di contribuire alla costruzione di un mondo migliore si smarrisce davanti alla sua complessità: il mondo è troppo grande, è molto più forte, oppone resistenza, vanifica i sogni, non è disposto a lasciarsi cambiare. Tuttavia alcune domande chiedono con insistenza una risposta:

– che cosa significa avere a cuore il mondo?
– che cosa si può fare per il mondo?
– dove e come posizionarsi … in un mondo così grande?

Il mondo, come tutte le parole astratte, pretende di dire troppo e rischia di non contenere nulla. E’ necessario restringere i suoi confini, farlo coincidere con una realtà più piccola e comportarsi come se questa piccola realtà fosse il mondo intero.

La scuola è lo spazio pubblico per eccellenza, è abitata da donne e uomini, storie, culture, religioni, ruoli di potere e di autorità: la scuola è davvero un mondo e rispondere a quelle domande diventa possibile.

Se la scuola è il luogo delle differenze e non delle diversità (“diversità” – da divertere – significa “deviare”, e si devia da una norma: il diverso può essere l’opposto, l’opposto può diventare il nemico e il nemico può generare gli schieramenti e la logica della guerra; “differenza” – da differo – significa “differire”, “portare/andare in altra direzione”: indica l’essere altro, non opposto), comportarsi come se la scuola fosse il mondo significa fare di questa realtà il luogo della politica:

La “polis”, propriamente parlando, non è la città-stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza tra le persone che vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui si trovano. (2)

Il mondo è determinato dalle parole e dalle azioni di ogni persona che ne faccia parte. Con le proprie parole e con le proprie azioni si dà inizio a processi irreversibili, dei quali ogni persona è la sola responsabile.

Si è in un contesto e lo si determina anche quando si tace, perché il silenzio e l’immobilità sono azioni politiche: il più delle volte non portano cambiamenti ma, seppure involontariamente, confermano l’esistente.

La propria libertà, condizione essenziale dell’agire politico, si realizza perciò nella scelta del punto nel quale collocarsi, con parole e gesti.

Avere a cuore il mondo diventa la cura della realtà nella quale si è, del contesto di cui si è parte, del luogo a volte piccolissimo che si sceglie di occupare.

Fare qualcosa per il mondo è assumersi la responsabilità delle proprie parole e delle proprie azioni, che determinano la realtà in qualunque caso.

La scuola, luogo delle differenze, è un mondo di relazioni complesse e talvolta complicate.

Una relazione è composta da tre elementi: l’io, il tu, e quello che c’è tra l’io e il tu; avere a cuore una relazione è avere cura di ciò che sta tra l’io e il tu, e che dipende sia dall’io che dal tu. Poiché non si è responsabili di quello che dipende dal tu, è necessario occuparsi dell’io, partendo da sé e dalle proprie responsabilità.

Ma partire da sé può essere inteso in due maniere:

– l’io è il soggetto, il punto di vista sul mondo; è il metro, la misura, il criterio per giudicare gli altri/le altre (il tu); è il centro del mondo e stabilisce le condizioni della relazione;
– l’io è nel contesto, non è astratto né onnipotente ma calato in una rete di relazioni; è uno di almeno due soggetti; essendo parte della relazione, è consapevole della sua parzialità.

La responsabilità è una parola composta da respondeo, “farsi carico”, e da sponsio, che significa “impegnarsi, promettere solennemente”: l’io responsabile è consapevole del proprio limite, della sua parzialità, e si impegna a rispettare l’altro/a affinché la relazione sia possibile.

Sarebbe bello se il mondo fosse popolato da persone che, facendo il loro ingresso nello spazio pubblico, stipulassero in libertà un patto con se stesse e agissero, di conseguenza, nel rispetto di quel patto, fedeli a quelle condizioni originarie e perciò a se stesse, investendo qui e ora la parte migliore di sé … perché il mondo sia migliore.

Invece il destino della scuola italiana è segnato pesantemente da una politica culturale legata agli interessi di questo o di altri governi, a loro volta dipendenti dalla politica dell’unione europea la quale fa i conti con la politica di altre potenze, e così via.

La globalizzazione è questo gioco di scatole cinesi, di pezzi concatenati come nel regime feudale, dove però era ancora possibile individuare i luoghi e i volti responsabili del destino della gente. Oggi sembra che nessuno abbia colpa e, alla domanda che cosa posso fare?, la risposta non può che essere niente!

Sarebbe altro se la scuola fosse un insieme composto di parti ciascuna delle quali funzionasse per il tutto, per realizzare al meglio e al massimo le sue potenzialità, per conseguire il suo fondamentale obiettivo: garantire e curare il futuro delle nuove generazioni. Allora avrebbe un senso pretendere, da chi insegna, la competenza e la coscienza politica del proprio ruolo, sulle quali condizioni è fondata la professionalità, procedendo all’esclusione di quanti/e lasciano segni negativi e inguaribili nella formazione di ragazze e ragazzi.

La scuola è invece una somma di pezzi ciascuno dei quali funziona indipendentemente dagli altri, essa stessa parte di una macchina più grande, messa in movimento da interessi del tutto estranei alle ragioni che dovrebbero tenerla in vita.

In questa sciagura hanno origine la rassegnazione, il risentimento, la perdita del senso di sé, dell’entusiasmo professionale, dell’ottimismo di una volontà ormai umiliata e resa impotente.

Davvero non si può fare niente?

Il lamento, a differenza di una vera risposta alla realtà a noi contemporanea, è del tutto funzionale al potere, perché si esaurisce su se stesso e non ne scalfisce affatto il meccanismo. (3)

Il lamento viene dal sentirsi vittime di un ordine dato, apparentemente fatale, al cui interno ogni elemento possiede una collocazione stabilita da una volontà estranea e inoppugnabile. La propria vita e il proprio lavoro sembrano dipendere da un burattinaio senza volto, sembrano diretti da una mente maligna, incapace di tenere conto della realtà vera e dei suoi bisogni. Ed è facile scivolare nella convinzione che le alternative possibili siano soltanto due:

– inserirsi nell’ordine di questo mondo, sostenerne gli scopi, individuare per sé un traguardo da raggiungere dimostrando di esserne all’altezza, collaborare a quell’ordine con il proprio impegno e le proprie competenze;

– lamentare l’ingiustizia di questo mondo, rivendicare i propri diritti offesi, sfidare il burattinaio del momento, affinché conceda ciò che ha negato o tolto.

In entrambi i casi quell’ordine viene confermato, anche quando si ottenesse un risultato vantaggioso: la mente maligna concede perché vuole dimostrare di essere buona!

Qualunque sia la prospettiva, è assente l’essenziale: perché scegliere la scuola come luogo del proprio lavoro? Perché insegnare? Esiste una terza alternativa, che non si riduca a una qualche forma di obbedienza?

Non potendo cambiare il mondo e neppure adeguarsi al suo ordine, è necessario modificare lo sguardo e compiere un gesto non previsto. La propria libertà sta a monte e non a valle, chiede un atto di coraggio e di fierezza, pretende una risposta chiara, onesta, spregiudicata: quale segno si vuole lasciare nel mondo? Quale uso si vuole fare del proprio tempo?

Partire da sé è l’unica strada che restituisce la sensatezza alla propria vita, e alla politica la sua nobiltà. Dire parole e compiere azioni in armonia con sé, fedeli a sé, scombina le regole degli altrui giochi e può provocare reazioni insperate, anche a propria insaputa.

L’ostacolo sembra essere la solitudine. Eppure dentro la scuola, come forse in tutti gli ambiti lavorativi, si muovono persone altrettanto impegnate a lavorare in libertà e senza paura, capaci di essere interamente in quello che fanno e che dicono. E’ bello riconoscerle e stabilire con loro una specie anche misteriosa di familiarità.

Questi incontri hanno il potere di aprire uno spiraglio e di indicare una direzione comune, purché non si corra il rischio della “complicità”, termine che allude alla somma di forze contro qualcun altro, … certamente nemico.

La formazione degli schieramenti è quanto di più noto accada dentro i luoghi di lavoro, è la tattica più comoda e più facile perché la costruzione sociale complessiva la favorisce. Ma ricorrere a questa modalità di azione, ben lungi dall’essere utile a migliorare il mondo, lo conferma invece nella sua logica fondativa, perché esalta e nutre l’abitudine a pensare e a dire secondo dualismi, coppie di termini solitamente in opposizione reciproca. Ragione o torto, vero o falso, amico o nemico: interpretare il mondo usando questi schemi significa negare la realtà stessa del mondo, che perde così la sua complessità e la sua ricchezza. La contrapposizione tra l’io e il tu paradossalmente si aggrava se i due termini diventano collettivi: noi e voi (o loro) sono parole comunque identitarie, affermano l’uno per negare l’altro, rivelano o generano un clima di guerra. In queste situazioni, e coerentemente con esse, si ricorre al compromesso, un accordo stabilito in funzione della convenienza reciproca sulla base di un calcolo, una tregua che assegna a ciascun avversario la sua “quota” sospendendo temporaneamente l’antagonismo, che si sposta senza risolversi. Esistono soltanto l’io e il tu, ciascuno interessato a essere riconosciuto. Fra loro è il vuoto.

Il mondo si salva se le differenze vengono considerate e rispettate. Per questo motivo è necessario avere cura delle relazioni perciò del medium, di ciò che sta tra l’io e il tu, luogo delle differenze e degli infiniti punti di vista nel mondo. Avere a cuore le relazioni non è facile, perché richiede la consapevolezza del proprio limite prima di quello altrui, dunque la coscienza della propria parzialità. Quando questa premessa viene tenuta in conto non c’è rischio di guerra: i soggetti della relazione non sono autocentrati, non sono mossi dal bisogno di dimostrare la propria superiorità, non si considerano autosufficienti.

Nella realtà i conflitti sono inevitabili e a volte è saggio sottrarsi, qualora la dinamica della relazione fosse davvero ingovernabile. Ma vale sempre la pena provare a scioglierli, ascoltando con rispetto le ragioni altrui e raccontando le proprie.

Se tra l’io e il tu c’è davvero il mondo, in quel luogo sicuramente si nasconde una terza alternativa, una terza via percorribile. Contrariamente al compromesso, la mediazione è un accordo al quale si giunge con il dialogo e perciò con l’ascolto reciproco; non inaugura un periodo di tregua perché è l’onesto riconoscimento dell’altrui differenza; è la ricerca di una direzione che possa tenere insieme ciò che venga considerato essenziale per entrambi.

L’uomo è una enorme palude. Quando lo prende l’entusiasmo è come se in un punto di quella palude vedessimo tuffarsi nell’acqua verde una piccola rana. (4)

L’enthousiasmos è la forza vitale che abita nel profondo di sé, troppo spesso soffocata da strati di rabbia, di delusione, di impotenza. Per riportarla in superficie è necessario un lavoro su di sé che non ha termine, insieme all’impegno nelle relazioni con chi prenda sul serio la vita propria e altrui. Ma … chi glielo fa fare?

A questa domanda si può rispondere forse in un solo modo: Il compito sei tu. Da nessuna parte si vede un alunno. (5)

Il privato

Non raramente, sembra davvero che il conflitto sia tra chi vuole insegnare e chi non vuole imparare.
Scherzi della falsa coscienza degli educatori di professione. (6)

Suona la campana e improvvisamente le porte si chiudono, separando ogni classe dal mondo esterno e, quando fosse possibile o necessario, da tutto quello che fino a un attimo prima occupava la mente e il cuore di studenti e insegnanti. Ognuno/a al suo posto, chi dietro un banco, chi dietro un banco più grande e talvolta più alto degli altri.

La scuola appartiene certamente alla sfera pubblica perché è abitata da categorie sociali varie, è governata da leggi e regole scritte e perciò anche contestabili, è organizzata in funzione di valori perlomeno dichiarati.

Le persone che la frequentano sono in relazione reciproca e agiscono e parlano, generalmente senza potersi sottrarre allo sguardo e al giudizio altrui. Nella migliore delle ipotesi i conflitti vengono alla luce e si risolvono, con il ricorso a una autorità se necessario, o con la pratica della buona politica quando le persone coinvolte non perdano di vista la ragione del proprio essere in quel luogo.

Nello spazio pubblico si rende conto di azioni e parole, come su un palcoscenico dal quale si parla al … pubblico, che approva o no, applaude o si agita nervosamente, sorride di compiacimento o abbassa lo sguardo, dirigendolo forse all’orologio che porta sul polso. E comunque il pubblico giudica, anche quando non gli venisse riconosciuto il suo fondamentale diritto di rispondere.

Che cosa accade dentro un’aula scolastica? Al suo interno la sfera pubblica e quella privata possono confondersi, scivolare ambiguamente l’una nell’altra, prevalere l’una sull’altra a seconda dell’atteggiamento di chi insegna.

Non è in discussione che l’insegnante svolga un ruolo ma che quel ruolo venga giocato arbitrariamente, macchiato con l’abuso di un potere presunto e indiscutibile, vanificato dall’esercizio di una superiorità implicita, data per scontata e perciò imposta dall’alto.

Eppure esiste una formula magica, capace di svelare una verità illuminante: porsi dietro un banco, immaginare di essere nei panni dell’alunna in fondo, quella con lo sguardo perso nel vuoto; oppure dell’alunna del primo banco, che non smette di voler apparire attenta; o ancora dell’alunno con la testa china, che non disturba ma che forse controlla l’orario o compone un messaggio.

Quali alternative sono date all’insegnante?

– può continuare a svolgere il suo lavoro e fare finta di nulla, perché ognuno/a renderà conto alla propria coscienza;
– può continuare a svolgere il suo lavoro pretendendo l’attenzione dell’intera classe, e rimproverando chi si distrae;
– può continuare a svolgere il suo lavoro fermandosi, domandando le ragioni di chi si distrae, tenendo conto della risposta e procedendo in altro modo, insieme al suo pubblico.

La scuola diventa privata quando non è più mondo, quando si ritiene di non dover rendere conto del proprio lavoro, quando il punto di osservazione di ragazzi e ragazze che ascoltano non riveste importanza alcuna. Si scivola nel privato se, chiudendo la porta dell’aula, avviene la separazione dal mondo esterno e da quello interiore, proprio e altrui; quando si ha la pretesa che i corpi non meritino rispetto e attenzione, e che soltanto il pensiero conti; quando si crede che il proprio comportamento non possa e non debba essere giudicato.

La sfera privata non è negativa di per sé, tanto che viene regolamentata da un apposito diritto. Mentre quello pubblico ha per oggetto lo Stato e il suo funzionamento, il diritto privato si occupa dei rapporti tra singole persone, e nasce come strumento di difesa e protezione della proprietà individuale. La vita privata stessa viene infatti considerata un fatto personale, di cui non si è tenuti/e a rendere conto se non per scelta (dalla qual cosa il sacrosanto diritto alla privacy).

Peraltro la società, fin dal suo sorgere più remoto, poggia sulla dimensione privata e di essa si nutre: le donne stavano dentro la casa, con maggiore o minore autonomia e riconoscimento di autorità, a seconda dei luoghi e dei tempi storici. A loro erano infatti negati tutti quei diritti che gli uomini esercitavano nella sfera pubblica della polis. Per questo motivo la politica non riguardava le donne, perché la sfera a loro riservata era inaccessibile a qualunque sguardo estraneo, non aveva visibilità ed era affidata al buon senso e/o alla moralità del “pater”, proprietario della donna, dei figli, degli schiavi. Ciò accadeva nell’antica Grecia, considerata ancora un modello di democrazia!

La conquista dei diritti politici da parte delle donne (istruzione, lavoro, matrimonio, divorzio, libera scelta della maternità) porterà la rivoluzione nella sfera privata, perciò nella società intera, aprendo la “casa”, mostrandone i “panni sporchi”, compromettendo un ordine sommamente ingiusto e dimostrandone piuttosto la politicità, soprattutto quando, nel segreto delle pareti domestiche, fosse (e ancora sia) compiuta la violazione dei fondamentali diritti umani.

Ma nel linguaggio corrente, e nella complessiva esistenza delle persone, la sfera privata conserva la sua importanza e va salvaguardata, in quanto luogo protetto dal giudizio e dalla indiscrezione altrui.

Al di là delle contraddizioni e delle insidie che possono albergare in questa dimensione, sembra ormai evidente che una classe di studenti non possa essere considerata una proprietà, o uno spazio separato dal mondo!

Porre al centro chi deve imparare è il principio di varie teorie pedagogiche: chi insegna lo sostiene, certamente in buona fede.

Ma … non è ancora politica, perché la politica si pratica e si esplica nella relazione, e si fa politica sempre, essendo disposti/e a riconoscerlo oppure no.

Che tipo di relazione si stabilisce tra chi insegna e chi deve imparare?

Che cosa accade davvero dentro un’aula scolastica?

E’ fin troppo ovvio che si debbano valutare i risultati del proprio lavoro, ponendoli in rapporto con il programma iniziale e con le finalità perseguite. Ma … chi valuta i risultati? Ed è lecito prescindere dalla valutazione del metodo che sostiene e collega ogni azione, ogni parola, perfino ogni più piccolo gesto di chi insegna?

Quel che conta in una vita umana non sono gli eventi che dominano il corso degli anni – o dei mesi – e nemmeno dei giorni. E’ il modo con il quale ogni minuto si connette al minuto seguente, e quel che a ognuno costa, nel corpo, nel cuore, nell’anima – e al di sopra di tutto nell’esercizio della facoltà di attenzione – compiere minuto per minuto quella connessione. (7)

Etimologicamente il metodo è la strada che si percorre per conseguire un determinato risultato. Percorrendo quella strada si commettono errori e si può inciampare, può sopraggiungere la stanchezza e talvolta si rischia una specie di smarrimento: la scuola è sempre più regolamentata, gli obblighi sembrano indiscutibili, alla libertà dell’insegnamento si pensa come a un mito di altri tempi.

Eppure il nodo dell’esistenza, perciò anche del lavoro, è ancora l’uso che si fa del tempo, del tempo proprio e di quello delle persone con le quali si è in relazione. E’ necessario che ogni attimo sia sensato, e che la sensatezza non sia un privilegio di chi insegna.

Stabilendo un traguardo da raggiungere e informando la classe del proprio progetto, sembra di compiere un gesto altamente democratico! La strada è tracciata, non vengono ammesse titubanze e, soprattutto, viene escluso l’imprevisto. In gioco è sempre la scelta tra la qualità del lavoro e la sua quantità: ascoltare la risposta del proprio pubblico e tenerne conto significa lasciarsi coinvolgere nella situazione presente, sospendere (almeno provvisoriamente) gli obiettivi prestabiliti, le scadenze e perfino la propria eventuale immagine professionale (come giustificarsi con il collega che è andato ben oltre nel programma?).

Qualsiasi lavoro tu faccia, se trasformi in arte ciò che stai facendo, con ogni probabilità scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante e non un oggetto. Questo perché le tue decisioni, fatte tenendo conto della qualità, cambiano anche te. Meglio: non solo cambiano te e il lavoro, ma cambiano anche gli altri, perché la qualità è come un’onda. Quel lavoro di qualità che pensavi nessuno avrebbe notato viene notato eccome, e chi lo vede si sente un pochino meglio: probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione e in questo modo la qualità continuerà a diffondersi. (8)

Porre al centro la relazione tra chi vuole insegnare e chi non vuole imparare significa tenere conto di due punti di vista differenti, di due verità parziali entrambe, di due linguaggi. Privilegiare la quantità può restituire la conferma di sé e delle proprie certezze, ma non modifica il mondo e riduce il pubblico a un ripetitore, a uno specchio poco affidabile della propria dignità professionale.

Il personale

Come distinguere il pubblico e il privato dentro la scuola?

La scuola è un mondo abitato da un numero incalcolabile di differenze, che solo in apparenza hanno scelto di convivere. Eppure, l’elemento cruciale che tiene uniti tutti i suoi abitanti è la relazione, da quella più alta di chi dirige con il collegio di chi insegna, procedendo fino a una coppia di studenti dietro un banco. Ma chi dirige ha da rispondere a sua volta a chi rappresenta le varie istituzioni scolastiche, e indirettamente a chi svolge il ruolo di ministro/a che però è anch’esso espressione di una maggioranza, e così via…

In linea teorica l’intera scuola è pubblica, gestita con soldi pubblici, governata in ogni suo aspetto tenendo in considerazione le varie generazioni di studenti, condizione senza la quale l’intero edificio perderebbe la sua funzione! A loro si dovrebbe rendere conto, e ogni insegnante politicamente consapevole lo dichiara senza alcun dubbio.

Eppure la dimensione pubblica può scivolare anche inavvertitamente in quella privata a seconda del proprio porsi in ogni relazione: poiché la scuola è fortemente condizionata dagli avvenimenti del mondo esterno, poiché essa ospita al proprio interno innumerevoli differenze ciascuna delle quali è l’espressione di un singolare punto di vista, viene da sé che il tempo scolastico non è mai fermo, e che neppure può essere costretto dentro i limiti di un programma e di obiettivi inamovibili, per quanto pensati in buona fede.

Quasi ogni giorno, quando i miei figli tornano da scuola, la prima conversazione che si svolge tra me, o mia moglie, e ciascuno di loro, è più o meno questa:

Come è andata?”
Bene”
Che cosa avete fatto?”
Niente”

Per quello che ho potuto appurare, questa conversazione si svolge, con insignificanti variazioni, in molte famiglie dei più diversi ceti, in ogni parte d’Italia, e forse del mondo.

Naturalmente, dietro le laconiche risposte dei nostri figli e delle nostre figlie ci sono tante motivazioni: per esempio una generica refrattarietà a raccontare le proprie cose ai genitori. Ma c’è forse qualcosa di più allarmante, che riguarda la vita scolastica: forse i ragazzi e le ragazze hanno davvero l’impressione che a scuola non succeda niente, o almeno niente che conti, perché tutto si ripete secondo un ritmo predefinito, che mette al bando ogni autentica novità. (9)

Sembra che il nodo stia nella disponibilità a cogliere l’imprevisto, e a farsene carico.

Partire da sé significa prima di tutto fare leva sulla propria esperienza, rivisitarla di continuo per individuare ciò che possa valere non solo per sé, disporsi a riconoscerne l’inefficacia qualora il contesto nel quale si è non ne tragga beneficio.

Ma come si valuta il “beneficio”? Quale atteggiamento è opportuno assumere perché la valutazione del lavoro non nasconda soltanto il proprio bisogno di conferma?

Simone Weil suggerisce l’azione non agente: l’io deve imparare a non essere protagonista della sua stessa azione; deve amare la sua scelta, non se stessa/o; deve dare spazio al mondo, facendosi da parte. L’azione è buona se riconosce e accresce l’altrui realtà, non quando la nega.

Perché tutto ciò accada, è necessario che vi sia la risposta al proprio agire, che il pubblico al quale l’azione è indirizzata possa dire il proprio punto di vista, e perciò agisca a sua volta.

Poiché l’azione riguarda esseri capaci a loro volta di agire, la reazione, oltre che una risposta, è sempre una nuova azione che inizia qualcosa di proprio, e influisce autonomamente su altri. (…)

Anche il più piccolo atto nelle circostanze più limitate ha in sé il germe della stessa illimitatezza, perché un solo atto, e qualche volta una sola parola, basta a mutare ogni costellazione di atti e parole. (10)

Restituire alla politica la sua nobiltà è lavorare nelle relazioni, è dedicare alle relazioni che possano dipendere da sé tutta l’attenzione che esse richiedono e meritano. E se è vero che ogni atto e ogni parola hanno il potere di mutare ogni costellazione di atti e parole, se è dunque vero che anche il più piccolo gesto può dare origine a processi irreversibili, dei quali chi compie quel gesto è assolutamente responsabile, allora lo spazio di un’aula scolastica rivela la sua natura di mondo, ricco di differenze e di imprevisti.

Ma niente di tutto ciò avverrebbe se, in quell’aula, non fosse prevista la libertà di parola. Sapere aude! Il famoso motto kantiano invita a pensare con la propria testa, esorta a trovare il coraggio di usare liberamente la propria intelligenza senza guide e tutori. Quale insegnante sarebbe disposta/o a negare che a questo mira il suo lavoro? E se anche il pensare da sé fosse un principio indiscutibile, che cosa ne sarebbe del libero pensiero se non venisse sostenuto dalla presa di parola?

Si ripresenta il dilemma della scelta tra la qualità e la quantità del proprio lavoro: prendere la parola è possibile se, e soltanto se, vengano garantiti lo spazio e il tempo della risposta. Ma talvolta chi insegna ha davanti a sé sguardi inquieti oppure distratti, corpi immobili oppure agitati; talvolta la risposta attesa non arriva ed è tardi, i minuti scorrono e corrono verso la fine dell’ora; lo schema della lezione, accuratamente preparata, non è ancora esaurito. E la classe tace…

c’è un silenzio che non appartiene a nessuno in particolare e si crea quando si è in attesa di parole pensanti e non semplicemente pensate. E’ questo un silenzio difficile da accogliere, da sopportare. Appare come un buco nero. (…) Eppure la pratica di pensiero in presenza ha un grande bisogno che si sappia reggere tale silenzio. Accoglierlo significa essere sorretti dalla fiducia che in questo modo si sta in un’altra forma di ascolto, che rinuncia all’inessenziale. Che si pone in attesa di ciò che non è immediatamente a disposizione. (…)

Il che non significa dunque risolvere la questione, ma darle parola, aprirla alle sue potenzialità. Gli esseri umani, in quanto mancanti, imperfetti, hanno bisogno del discorso di altri esseri umani. Per questo è così vitale pensare assieme. Ed è così che l’essenziale non è concludere, rispondere, risolvere, ma aprire lo spazio del ragionare, all’interno del quale a volte qualche affermazione vera viene guadagnata. (…)

Io credo che la volontà di chiarezza e di definizioni conclusive ed esaurienti abbia l’effetto di svuotare il desiderio stesso di pensare assieme ad altri, che in realtà nasce dalla consapevolezza implicita della propria mancanza e non da contenuti solidi e già acquisiti che le definizioni ripetono. (11)

La pratica del pensare in presenza porta con sé la rinuncia alla quantità delle informazioni: calarsi davvero nella situazione in cui si è significa riconoscere la propria parzialità e disporsi ad aspettare, a domandarsi e a domandare che cosa faccia da ostacolo alla risposta, a interpretare il linguaggio di quei corpi e il silenzio delle parole, offrendosi umilmente allo sguardo e al giudizio altrui.

Ma … quanto di tutto questo appartiene alla coscienza e al cuore di chi insegna? Quanto si è davvero interessati/e alla risposta di chi “deve” imparare? Eppure ogni persona sa, per sé, che la sofferenza compare quando la disposizione del proprio corpo è lontana dai desideri e dai sentimenti che lo attraversano, quando la condizione nella quale si è non permette di dirsi. La libertà ha origine nella ricerca delle parole per esprimersi, e nel coraggio di dirle.

Prendere pubblicamente la parola è lo scoglio da superare per agire la propria libertà, oltre e prima di qualunque diritto ufficialmente riconosciuto. E’ un lavoro su di sé che può cominciare a un certo punto della vita: rappresentare, come insegnante, l’occasione perché quel lavoro abbia inizio significa lasciare un segno indelebile nella vita di chi sta dietro un banco, significa restituire alla scuola e alla propria professione la più alta qualità.

E i programmi? E i voti? E il tempo, che maliziosamente corre e insinua il dubbio? E, soprattutto, a chi si deve rendere conto?

Muovendo dal presupposto che le intenzioni siano buone, è opportuno domandarsi quale sia il proprio rapporto con il “potere”, quanto-come-perché si debba obbedire a regole esterne ed estranee a sé, quanto-come-perché si perda a volte il senso del proprio lavoro per identificarsi con un ruolo che certamente è intermedio tra chi sta più in alto e chi si colloca più in basso. Di conseguenza, a seconda della propria risposta, va indagato il rischio che la competenza si trasformi in una autorizzazione a esercitare arbitrariamente il potere di cui si dispone.

Il rischio può essere controllato vigilando sulle proprie ambizioni, resistendo alla tentazione del compromesso, salvaguardando la propria libertà di parola e di azione.

Torno così al tema del partire da sé come filosofia pratica. Il suo pregio principale, o forse il primo che ho scoperto e che me l’ha resa cara, è che, nel tuo ragionare, giudicare, decidere, “non ti fai trovare” dove gli altri ti aspettano, senza che, per questo, tu debba isolarti in solitudine. (…) Quello che devo saper fare, dunque, sono i conti con la realtà, me compresa, e farli bene. (12)

L’essenziale è la libertà e si gioca al presente, non è rimandabile a un futuro che non c’è e si manifesta nel motivo che spinge a partire da sé, dal luogo nel quale il sé è posto.

Che cosa induce a obbedire e a farsi obbedire? Quali paure, quali problemi irrisolti, quale immagine di sé lo richiede? Senza una risposta a queste domande non è lecito pretendere che le ragazze e i ragazzi, dietro quei banchi, partecipino con impegno al buon esito del lavoro in classe.

E questo davvero accade perché non vogliono imparare?

La sfera personale, luogo di dubbi e di certezze, di armonia e di risentimento, di motivazioni profonde e di delusioni segrete, è ciò che muove, invadendo e condizionando ogni dimensione della propria vita, pubblica e privata, non solo scolastica.

Tutto questo, e molto altro, è contenuto nella frase che rappresenta un principio fondamentale del femminismo: il personale è politico.

Note

(1) Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi, 1997, p. 128

(2) H. Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1997, p. 145

(3) C. Zamboni, Ordine simbolico e ordine sociale, in: Diotima – Oltre l’uguaglianza, Napoli, Liguori, 1995, p. 34

(4) F. Kafka, Confessioni e Diari, Milano, Mondadori, 1976, p. 946

(5) F. Kafka, ibidem, p. 795

(6) Filippo M. De Sanctis, I ragazzi inventano il cinema, Cagliari, edes, 1979, p. 28

(7) S. Weil, Diario di fabbrica, Genova, Marietti, 2016, p. 135

(8) R. M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi, 1981, p. 341

(9) G. Armellini, Buone notizie dalla scuola, Pratiche Ed., 1998, p. 79

(10) H. Arendt, op. cit., p. 139

(11) C. Zamboni, Pensare in presenza, Liguori, 2009, pp. 11, 28, 46

(12) L. Muraro, Partire da sé e non farsi trovare…, in: Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, 1996, pp. 8, 10

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